LE EMOZIONI NEL MORIRE

Prendiamo ora in esame l’aspetto emotivo. Il trapasso è un processo in cui si scatenano, dal nostro interno, fortissime e conturbanti emozioni commiste a vivide apparizioni visive, cenestetiche, e in minor misura uditive e olfattive. Esse tendono a travolgere anche emotivamente il morente. Non a caso la preghiera cristiana per i defunti invoca per essi tranquillità: l’eterno riposo dona a loro Signore, splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace, amen. Molti insegnamenti esoterici per il trapasso trattano la gestione di tale stato emotivo e percettivo. Per padroneggiarlo, bisogna costruire il carattere lavorando, pertanto, principalmente sulla propria emotività e sulla propria capacità attentiva. Questo oggi è molto impopolare e arduo, non solo da fare ma persino da concepire e da accettare, a causa del condizionamento mentale a cui siamo sottoposti sin dalla prima infanzia. E che dobbiamo invertire.

La nostra società basata sul continuo incremento del fatturato, cioè del prodotto interno lordo, necessario per sostenere il pagamento degli interessi sull’enorme mole del sempre crescente debito pubblico e privato, si regge forzatamente sul consumismo, che alimenta il fatturato. Inevitabile quindi che ci troviamo bombardati di stimoli al desiderio di comperare, godere, consumare, spendere. Messaggi pubblicitari come “lasciati emozionare”, che invitano appunto ad aprirsi agli stimoli emotigeni, sono anche propri della informazione e delle intrattenimento per il grande pubblico, tanto nei contenuti verbali, quanto nelle immagini e nei suoni o musiche che li accompagnano.

 Il tutto è incalzante e tende ad assumere e controllare dall’esterno la vita emotiva e motivazionale della popolazione, che quindi viene educata e condizionata a porsi in modo passivo e ricettivo rispetto sia agli stimoli che alle emozioni, a prenderli come dati di realtà indipendenti e rispetto ai quali non ci si mette a reagire, a lavorarci sopra, a prendere distanze prospettiche, perché ciò sarebbe una rinuncia alla pienezza della vita e al diritto alla spontaneità, alla libertà. Tu vivi in quanto ti stai eccitando o stai scaricando l’eccitazione. Se l’eccitazione finisce, è un male e devi prendere qualcosa che te la faccio a tornare o che ne faccia tornare gli effetti, come il buon Viagra.

Parallelamente alla passività verso le emozioni e le loro cause, il sistema ci educa alla passività rispetto all’attenzione, ci spossessa o meglio ci atrofizza la capacità di dirigerla, focalizzarla, sostenerla. Lo fa assuefacendoci ad essere intrattenuti dalla televisione, dai videogiochi e simili strumenti di intrattenimento, e quale, mentre li usiamo o meglio ci facciamo usare da essi, si impossessano della nostra attenzione, la guidano la attaccano a questo o a quello, la collegano alle emozioni, ci somministrano scariche di interesse, di piacere, chimicamente di dopamina, tali che per qualità, intensità e varietà prevalgono su quelle che riceviamo dalla vita reale; il risultato è che, soprattutto nelle ultime generazioni’che sono cresciute davanti a questi piccoli diabolici schermi, non si sviluppa la facoltà di padroneggiare la propria attenzione, e lo vediamo poi a scuola nella incapacità di seguire con attenzione l’insediamento per più di 10/15 minuti consecutivi – incapacità che ormai è un dato acquisito per la didattica, anche in ambito universitario.

A questa perdita di facoltà attentiva è associata anche una perdita della capacità mnemonica e di quella del pensiero logicamente articolato, consequenziale. Vi sono approfondite indagini sperimentali, neuropsicologiche, di questo graduale scadimento cognitivo. Il compito è trasformare la passività in capacità di azione e di padroneggiamento, o mastery.

Già il prendere consapevolezza di quanto sopra è abituarsi ad accorgersi di tutte le occasioni e le forme in cui tale scadimento si produce e si traduce, è un buon inizio di un percorso di ristrutturazione del carattere per coloro che vogliono prepararsi al grande evento. Ma qui, per procedere in modo concreto, devo raccontare un fatto personale.

Io vissi, intorno ai 4 anni un episodio illuminante e molto formativo. I miei genitori mi avevano dato un minuscolo giocattolino che mi piaceva molto e con cui giocavo facendolo galleggiare nel lavandino. Inavvertitamente aprii lo scarico e Il giocattolino cadde giù. Invano tentammo, prima io e poi mia madre, di recuperarlo. Ricordo che mi disperai fino alle lacrime perché vivevo la cosa come una grande perdita, irrimediabile. Poi il tempo passò, venne l’ora di pranzo, poi di un riposino, e alle 15:00 circa mia madre mi portò secco a fare la spesa. Mentre rincasavamo, intorno alle 16, si rivolse a me e mi disse di non disperarmi perché la sera sarebbe tornato mio padre e avrebbe svitato lo scarico del lavandino per recuperare Il giocattolino. Io sul momento rimasi sorpreso perché non sapevo a che cosa collegare questo suo dire. Poi mi sovvenne dell’episodio della mattinata e mi ricordai delle emozioni che avevo provato, così intense e travolgenti, totalizzanti. Mi meravigliai assai nel confronto tra il mio stato attuale, indifferente, e quello di allora, esasperato, accorgendomi che quello stato emotivo, che sembrava solido e permanente mentre lo vivevo, non esisteva più, al punto che me ne ero dimenticato. Mi accorsi insomma che gli stati emotivi sono momentanei anche se tali non paiono, che vanno e vengono, o meglio che si entra e si esce in essi e da essi. Bene, Il passo successivo è chiedersi se e come si possa operare volontariamente questo entrare ed uscire. E abbiamo le risorse per farlo.

In questo campo, gli insegnamenti, anzi le scuole, non si contano, dalla psicologia cognitiva sperimentale indietro indietro fino alla filosofia applicata dei Greci e agli insegnamenti buddhisti e induisti. Qui mi limito a indicare quella che secondo me è l’essenza che accomuna tutti questi insegnamenti, essenza che il buddhismo tibetano esprime con la parola bardo, che significa intervallo, e che noi potremmo assimilare, con riferimento alle marce di un’automobile, al folle. L’intervallo è quello tra due stati mentali, tra il sonno e la veglia o la veglia e il sonno, tra un pensiero e un successivo pensiero, tra il focalizzare l’attenzione sull’esterno e il dirigerla verso l’interno, e via discorrendo. Il pregio del bardo è che esso è un momento di coscienza non concettuale in cui appare la non solidità, intesa come non permanenza e sussistenza indipendenti dalla mente, di tutti i fenomeni, dalle apparenti cose materiali alle emozioni. Cogliere consapevolmente il bardo, nella sua fugacità, esige una certa pratica in cui il lavoro sull’ attenzione, sulla visualizzazione e sulla respirazione, quest’ultima adoperata come regolatore emotivo, svolge un ruolo fondamentale; ma capita di coglierlo anche fuori di una pratica meditativa mirata, allorquando la nostra mente riposa in se stessa, cessa di protendersi verso l’esterno, verso il passato, verso il futuro e resta nella propria identità cristallina. Ciò avviene per esempio in momenti di spossamento o spaesamento, di rilassamento dopo un fortissimo stress, di disperazione totale che ci libera dallo stesso desiderio di esistere. Allora sentiamo la fluidità e inconsistenza del tutto, noi compresi, ed è quella è la porta maestra per uscire dalla turbolenza emotiva.

Perché mai -mi chiederete- oberarsi di tutto questo lavoro, quando si deve morire? Ovviamente, citando col vero titolo del Libro egiziano dei morti, “per uscire alla luce del giorno”.

Marco Della Luna