IO TI AMO, ETERNITA’…..

L’uomo non riesce a definire il tempo, però  lo teme, anela all’eternità e aborrisce la morte, la fine. Ma che cos’è l’eternità? A quale eternità stiamo anelando? Vi sono invero modi molto differenti di intenderla. Per un primo modo, essa è la continuità illimitata nel tempo, attraverso il divenire, di un soggetto definito e stabile, dell’io, con o senza evoluzione. Per un secondo modo essa è il nunc stans, l’attimo eterno, l’immutabile, l’uscita dal flusso del tempo. Per un terzo modo essa viene conseguita con lo scioglimento oceanico dell’io individuale nel tutto. In un quarto modo, è intesa come eterno ritorno, infinita circolarità temporale.

 Ma che cosa significa eternità del soggetto? Una prima osservazione è che il soggetto è cangiante nel tempo, anzi non vi sono limiti a ciò che in esso può cambiare, può cessare o arrivare, e questa assenza di limiti al cambiamento la possibilità di una specifica identità stabile di ciascun soggetto. Quindi anelare alla propria continuità illimitata è anelare all’impossibile, ossia dannarsi. Ciò elimina il primo dei suddetti modi di intendere l’eternità.

Una seconda osservazione è che, se non vi fosse cangiamento, divenire, non vi sarebbe coscienza, perché la coscienza è sempre coscienza di cambiamento, di esperienze; e la coscienza di esistere richiede il cambiamento-successione affinché sia percepito il tempo, ossia la durata dell’esistere, dato che solo un cambiamento può distinguere il prima del dopo, quindi da esso dipende la possibilità del tempo. Ma allora il divenire non è qualcosa che accada all’ente, all’esistente. Non gli arriva da fuori a minacciarlo. Ossia esso non è un flusso in cui gli enti, anche il mio io, si trovano immersi, e che su essi agisce, mutandoli, generandoli, annientandoli. Divenire ed essere, al contrario, coincidono. L’ente non resiste al divenire, al tempo, per continuare ad essere, bensì è il diveniente.

Inoltre, ogni ente, per poter esistere, necessariamente non è un punto ma un tratto del divenire, contenente nell’atto di coscienza una certa, discreta estensione temporale o successione, ossia estensione di divenire. Un’estensione però necessariamente limitata. Non è statico, come siamo avvezzi a pensarlo, né puntuale, bensì è un processo, similmente alla musica, che esiste in quanto processo, mentre non può esistere come ‘punto’, come una singola nota, né come compresenza della totalità delle note che la compongono, simultaneamente suonate.

Ciò elimina dal possibile il secondo e il terzo modo di intendere l’eternità.

Un ipotetico essere perfetto e infinito, non potendo perciò stesso mutare, non potendo cioè divenire, non potrebbe esistere, non potrebbe fare esperienze, non potrebbe essere cosciente.

Ecco dunque che cosa non può essere l’eternità: non può essere uno stato di perfezione, un Dio perfetto, una fusione con l’essere perfetto.

Dunque l’esistenza è sempre coscienza ed è sempre limitata ed è sempre un tratto del divenire totale dell’universo. Se l’esistenza è eterna, e se pertanto non può mai divenire il proprio contrario ossia il nulla, come insegnavano gli eleati col principio di non contraddizione, allora questo ente diveniente, che mai si ferma, mai cessa di cangiare, e mai cessa di esistere, dovrà inevitabilmente ripetersi, viaggiare infinitamente sulla strada del suo divenire. Questa condizione di ripetizione circolare infinita, o samsara, è espressa dal simbolo buddhista della ruota, ed è la ragione per la quale il buddhismo poco si interessa degli Dei. Infatti gli dei, essendo, così come tutti glialtr  enti, soggetti incessantemente al divenire e al ritorno ciclico, si trovano in una condizione simile a quella dell’uomo ordinario, sì che non possono aiutarlo a liberarsi da essa, a trascenderla. L’unica via per fare ciò è il prendere coscienza di questa circolarità e distaccarsene. Goethe sembra esprimere un’intuizione di ciò scrivendo:

Dal poter che ogni esser prende

Si libera colui, che si trascende.

Il trapasso è l’occasione più propizia per riuscire in tale passo. La preparazione al trapasso è innanzitutto meditazione su quanto finora ho detto è abituazione della mente a stare nella coscienza di ciò come sua condizione naturale e fondamentale. Abituazione significa avvezzamento, significa consolidamento di uno schema automatico, di una identificazione automatica, che siano attivi nel trapasso senza bisogno di uno sforzo cosciente per attivarli, così da produrre un fluido distacco dalla condizione che se ne va e da evitare il lacerarsi della persona nello strappo dei suoi legami con ciò che se ne sta andando, distacco che è il vissuto doloroso del morire; e di evitare altresì il successivo riattaccarsi a una nuova condizione di identificazione samsarica.

La madre di tutti gli attaccamenti è il fallace vissuto che l’ente, quindi anche l’io, sia altro dal tempo, o più esattamente dal divenire, e che debba resistere ad essi aggrappandosi a propri contenuti e ai possedimenti che gli sono graditi e in cui si identifica e rassicura. Questo è l’errore fondamentale che produce oscurità e sofferenza. Le nostre sorti attraverso il trapasso dipendono infatti dagli schemi psichici che avremo consolidato prima di quel momento, dagli attaccamenti emotivi residui, ma anche da come le nostre azioni avranno plasmato il nostro campo psichico, e altresì dalle condizioni contingenti del momento del trapasso stesso.

Perciò è importante, tra le altre cose, chiarirsi le idee sul rapporto tra ente e tempo, e non solo chiarirsele ma anche assimilarle, farne un tratto della propria identità. A questo scopo ho scritto il mio ultimo libro, Terminus. Terminus era il dio romano dei confini, o termini, e la leggenda narra che, allorquando si iniziò a costruire il tempo di Giove Capitolino, si cercò si estrarre dal terreno e spostare la sua erma, che si trovava nell’area destinata al tempio; ma non fu possibile smuoverla, sicché si dovette incorporarla nel tempio lasciando sopra di essa un’apertura, perché il dio Terminus non può essere coperto. Insomma, persino il sommo Giove dovette accettare Terminus, il limite. La leggenda esprime che Terminus, il limite, è al di sopra degli dèi, è una Necessità (il suo motto è “nemini cedam”), un’Ananke. Precisamente, la necessità di un limite che dia forma e insieme spazio per divenire, per continuare ad essere, a ciascun esistente. Necessità nel senso che, senza di esso non si esiste. Anche le parole “tempo” e “tempio” racchiudono il limite, la cesura, le separazione: entrambe hanno la radice indoeuropea tm, tem, tom del greco  temno , taglio.

Ma, di nuovo, che cos’è il tempo? Dicevamo in apertura che l’uomo non lo sa definire. S. Agostino diceva di saperlo, ma di non riuscire a spiegarlo a chi glielo chiedeva. Il tempo è un concetto indefinibile, cioè senza un significato razionale, perché ogni tentativo di definirlo lo presuppone. Se infatti lo definiamo come successione (di eventi, di stati, di atti, di pensieri), la successione, ossia 1 poi 2 poi 3 poi 4… (o la ‘dimensione’ in cui essa si snoda), altro non è che la dimensione del tempo – quindi noi stiamo cercando di definire il tempo mediante il concetto di tempo: un’operazione ovviamente invalida. Inoltre, parlare di tempo è parlare di passato, presente e futuro. Poiché l’adesso è il presente, tutto ciò di cui ho coscienza adesso è (il) presente. Se dico che qualcosa che mi appare è un passato (un ricordo di qualcosa che è stato presente), mi contraddico, perché in realtà mi appare nel presente (mi sta apparendo), dunque come presente; ciò che appare nel presente non può apparire come passato, per definizione, o per nozione. Il passato stesso, cioè il non-presente, non mi può stare apparendo nell’adesso; altrimenti detto, ciò che mi sta apparendo mi sta apparendo adesso, quindi solo come presente. Il ricordo, come presenza nel presente del passato, è una contraddizione in termini, un’impossibilità logica. Che cosa può essere, allora, il tempo, o meglio il divenire? E’ l’atto fondamentale (e non scomponibile, non analizzabile) dell’esistere e dell’esperire che viviamo come successione temporale: proprio per questo non può essere definito. Esso è te stesso, tat tvam asi. Non temere ciò che sei.

Marco Della Luna